Maria Teresa Chechile, infermiera originaria di Atena Lucana, in servizio a Jesi, in provincia di Ancona, nel reparto di Pneumologia dell’ospedale “Carlo Urbani”, scrive una lettera aperta e una poesia dai titolo “IN TRINCEA – 18 marzo 1932”, “come infermiera, come autrice, come poetessa, con un sguardo rivolto a questo momento di estrema difficoltà”.
E’ una sorta di confidenza, un pensiero espresso ad alta voce. Un ricordo con similitudini tra gli anni della guerra e quello attuale, dove destini, modalità, si incrociano. Io, originaria di Atena Lucana, e le difficoltà di stress a cui siamo tutti sottoposti, sia psico che fisico. Le emozioni e poi accorgersi proprio in queste situazioni l’importanza del nostro essere. Essere caduci, labili ed anche trovare la forza di rinascere. Perché ogni triste realtà deve condurre ad una nuova rinascita.
Non posso non pensare al mio paese d’origine, Atena Lucana. Qui da Jesi, dove il destino mi ha portata e dove lavoro, presso l’ospedale “Carlo Urbani” che, ironia della sorte, è intitolato al medico marchigiano che di Sars ne ebbe, purtroppo, la peggio, giunga la mia vicinanza.
Alla mia mamma, che spero di poter riabbracciare presto, ai miei affetti più cari, alla comunità tutta e a tutta l’Italia voglio urlare quel “Andrà tutto bene”.
Non posso e non possiamo farci prendere dallo sconforto anche se a volte vorrei potermi svegliare da questo incubo di un sogno di una notte qualunque, come quando mi affacciavo alla finestra e raccoglievo i miei pensieri, e tornare a giocare. A giocare come un bimbo fa. Correre in mezzo ad un prato fiorito che sa come di questa primavera. Andare tra la gente anche solo per abbracciarci in un unico abbraccio del mondo.
Ritorneremo a sognare vite normali, a vivere. Ritorneremo.
IN TRINCEA – 18 marzo 1932 –
Chissà cosa avresti detto oggi.
Forse avresti ripetuto le stesse parole d’allora, quando ci raccontavi di guerra, di miseria e di sirene che suonavano ad annunciare il coprifuoco. Di nemici che avanzavano, di alleati e di paure e nascondersi ognuno alla meglio, chi nelle grotte o tra gli anfratti o rinchiusi in casa perché arrivavano i bombardieri, le rappresaglie. Tra le razzie, di chi e chi come meglio poteva, raccogliere quel po’ che era concesso per sfuggire alla morte. Oggi come allora la scena è la stessa. Il muoversi delle masse in fretta, assaltare le diligenze dei treni e dei negozi e poi scendere in battaglia armarti di mascherine, guanti e disinfettanti per difendersi dal nemico. Ma questa volta il nemico è invisibile. Non ci abbracciamo per farci coraggio, stringendoci l’uno all’altra ma, sai, ci evitiamo per salvare la pelle. Non ci ritroviamo nei covi comuni ma ci guardiamo senza neanche parlare,, come se il nemico al solo sentirci potesse farci male.
Avresti rivisto oggi quella storia. Si, diversa eppure simile. Avresti concluso che siamo in guerra. Ma sai papà è guerra che non ha fucili e ne’ mimetiche ma siamo armati uguali. L’uniforme bianca ne fa dei generali, dei comandanti o dei soldati semplici. Che’ dai balconi si canta e si balla e si sfida la sorte. È oggi come allora il canto dei popoli. Mi raccontavi di bandiere troneggianti come vessilli e dentro le case a pregare coi lumi sempre accesi. Era allora la guerra dei confini e della supremazia, oggi è la guerra del confinare un virus in gabbia. Traditore e fautore del “vivere è sempre quello “.
Ecco papà cosa c’è di nuovo sotto il sole: nulla di nuovo.
Ritorneremo a sventolare bandiere tricolori tra piazze e città, oggi vuote o tali, ed annunciare la guerra è finita!
– Maria Teresa Chechile –