Ha avuto un’eco internazionale la scoperta di un dipinto di Andrea Mantegna, scomparso per 500 anni e ritrovato dallo storico dell’arte Stefano De Mieri, nato a Sanza e docente universitario alla Suor Ursola Benincasa di Napoli.
Il dipinto “La Deposizione di Cristo”, oggi custodito nel Santuario della Beata Vergine del Rosario di Pompei, era già documentato nel Cinquecento, ma se ne erano perse le tracce. A rendere possibile il riconoscimento è stata la pubblicazione dell’opera sul portale BeWeB della Conferenza Episcopale Italiana, che ha permesso allo studioso Stefano De Mieri di avviare le ricerche.
La notizia è rimbalzata da ogni parte e noi abbiamo voluto contattare direttamente l’autore.
- Da una sua intuizione, professionisti di varie discipline hanno iniziato lo studio su una tela riconosciuta poi come “La Deposizione di Cristo” di Andrea Mantegna. Cosa ha significato per lei tale scoperta?
La fotografia riprodotta in BeWeb diede il via a una ricerca tuttora in corso sul prestigioso dipinto di Andrea Mantegna attestato dall’umanista Pietro Summonte nel 1524 in San Domenico Maggiore e di cui si conoscevano fino al 2020 solo due copie antiche. Nonostante gli estesi rifacimenti della tela, la qualità pittorica delle parti meno interessate dalle ridipinture lasciava intuire che l’opera in questione potesse coincidere con la “cona” ricordata da Summonte. La conferma dell’attribuzione al Mantegna è giunta attraverso un lungo e delicato restauro, affidato a Lorenza D’Alessandro, che si è avvalsa della collaborazione di Giorgio Capriotti, all’interno dei laboratori dei Musei Vaticani, e dunque in uno dei presidi del restauro più importanti a livello internazionale. La tela, essendo stata liberata da una spessa coltre di ridipinture (e per giunta incollata su un supporto ligneo), ha perduto in buona parte le qualità cromatiche originarie, che affiorano solo in alcune porzioni. Tuttavia, con il restauro è stato possibile guadagnare un’adeguata leggibilità dell’opera e le accurate indagini scientifiche pubblicate nel catalogo della mostra inaugurata lo scorso 20 marzo (Edizioni Musei Vaticani) rivelano la qualità finissima della composizione. Al di là dell’evidenza stilistica, ciò che è stato davvero decisivo per l’attribuzione al Mantegna è la scoperta che la tela risulta essere realizzata con la tecnica nota in tedesco come tüchlein, la quale prevedeva l’utilizzo di tempera magra stesa su tela di lino ad armatura fitta. Si tratta di una tecnica che Mantegna adoperò anche in altre occasioni, come è spiegato nel suddetto catalogo. Ne è derivata così la prova definitiva che il dipinto non può essere in alcun modo considerato un’ulteriore copia antica. La scoperta risulta essere tra le più importanti avvenute in Italia meridionale negli ultimi decenni, considerato che è stato possibile di fatto recuperare una delle principali testimonianze del Rinascimento a Napoli, di cui si erano perse tutte le tracce da mezzo millennio. Ecco perché tale rinvenimento rappresenta per me un motivo di grande soddisfazione.
- Qual è il mistero che avvolge la tela del Mantegna “La Deposizione di Cristo”?
L’opera, ignorata da tutte le fonti successive a Summonte, non fu compresa e adeguatamente apprezzata nel contesto partenopeo dopo gli inizi del Cinquecento. Il mistero consiste nel fatto che della Deposizione di Cristo si perdono quasi tutte le tracce nei secoli successivi e solo ora, a distanza di mezzo millennio, essa ritorna a far parlare di sé.
- Monsignor Antonio Caputo, Arcivescovo di Pompei, ha notato che “nel dipinto di Mantegna accanto alle figure dolenti, appare un prezioso rosario […] Tutto lascia pensare che il quadro ‘appartenesse’ a Pompei ancor prima della sua scoperta”. Ritiene che il rosario possa esser stato il veicolo che dalla chiesa di San Domenico Maggiore a Napoli abbia fatto giungere il dipinto a Pompei?
Attraverso un paziente scavo archivistico è stato possibile ricostruire almeno in parte le vicende del dipinto, anche se solo in relazione alla fase sette-ottocentesca. Darò conto dei risultati di queste ricerche in una prossima pubblicazione. Più volte ho dichiarato che l’opera, quasi certamente già alterata dalle ridipinture e dunque resa di fatto irriconoscibile, poté essere donata alla sede in cui è stata rinvenuta nella seconda metà dell’Ottocento da padre Alberto Radente, già priore di San Domenico Maggiore tra il 1856 e il 1864 e primo rettore del Santuario di Pompei. Indubbiamente, l’esibizione del rosario da parte della bellissima, lacrimante santa Maria Maddalena risponde a una scelta iconografica unica, che conferma la matrice domenicana del quadro, e dovette essere un motivo di attrazione da parte di chi decise di donarlo al Santuario della Beata Vergine del Rosario di Pompei.
- Sfogliando la stratigrafia, i vari strati sovrapposti nel tempo, si analizza il valore materiale di un’opera che non va mai slegato dal suo valore immateriale. Quale valore può identificare in questa tela?
Non v’è dubbio che la tela ritrovata costituisce un’intensa rappresentazione di uno dei momenti culminanti della Passione di Cristo, in una certa misura legata al pathos di una più antica e altrettanto drammatica interpretazione del tema del Seppellimento di Cristo da parte di Andrea Mantegna, e cioè la famosa stampa da lui realizzata poco prima del 1478.
- Cosa prova uno studioso come lei quando si trova di fronte ad un’opera considerata perduta?
Nella mia attività di ricerca mi è capitato più volte di rintracciare opere di cui si conoscevano solo notizie trasmesse dalle fonti e dai documenti. In questo caso, però, stiamo parlando di una testimonianza rilevantissima e rara. Aver contribuito a restituire questo prezioso dipinto alla collettività è per me un motivo di grande soddisfazione, che dà senso all’attività di studio e di ricerca, troppo spesso, in ambito umanistico, relegata entro stretti confini.
- L’arte sacra parla ancora alle comunità?
Certo. L’arte sacra non va considerata esclusivamente in relazione alle specificità estetiche e storico-artistiche ma è necessario essere consapevoli che essa, quando è inserita all’interno dei contesti religiosi di appartenenza (e dunque quando non è musealizzata), può ancora assolvere a quella che è la sua funzione primaria, veicolare cioè messaggi di fede per le comunità cristiane.
- Pensa di poter estendere le sue ricerche al contesto territoriale del Vallo di Diano e a Sanza, da cui proviene?
Fin qui mi sono occupato marginalmente del nostro territorio e ho finora pubblicato solo alcune ricerche inerenti al Sei e al Settecento. È possibile, però, che in futuro io possa contribuire più estesamente allo studio e alla difesa del patrimonio artistico locale, in larga parte ancora da esplorare e che senz’altro serba notevoli manufatti.
“La Deposizione di Cristo” è fruibile nella mostra “Il Mantegna di Pompei. Un capolavoro ritrovato”, nella sala XVII della Pinacoteca Vaticana.