Intervista a Michael Giffoni, diplomatico originario di Teggiano, che ha ricoperto vari e delicati incarichi italiani ed europei tra i quali quello di primo ambasciatore italiano in Kosovo, analista di geopolitica e profondo conoscitore delle aree di crisi nel mondo.
- Dottor Giffoni, cosa sta succedendo in Ucraina?
 Siamo entrati nel terzo giorno dall’invasione armata dell’Ucraina da parte russa, una vera e propria aggressione, spietata e giĂ sanguinosa, ingiustificabile e inaccettabile. Da stamattina, dalle notizie che giungono dal terreno, per forza di cose anche confuse, sembra chiuso ogni spiraglio di trattativa, infuria la battaglia di Kiev iniziata subito dopo l’invasione stessa da est, nord e sud, e ora si combatte quartiere per quartiere, quasi casa per casa. Quella passata sembra sia stata la notte degli ultimi discorsi: adesso si teme il peggio per l’impiego di armi peggiori, per la caccia all’uomo, per i bombardamenti che la corsa contro il tempo rende indiscriminati. Di ora in ora diventa piĂą evidente la disumana scommessa di Vladimir Putin e il costo altissimo per il popolo ucraino. Mentre il mondo condanna e si indigna – e la Cina, ancora piĂą cinicamente, si astiene – la domanda sembra essere una sola: la determinazione di Kiev a non arrendersi, a vendere cara la pelle e la libertĂ , può muovere qualcosa a ovest, nel molle occidente e nell’Unione Europea perennemente in crisi d’identitĂ , può indurre Putin a frenare, o servirĂ solo a rendere piĂą feroce la battaglia finale, a prolungare un’agonia?
- Alla luce della sua esperienza, che scenario si prospetta per l’Ucraina e per l’Europa?
L’escalation politica e diplomatica degli ultimi mesi, condotta spregiudicatamente da Putin e che aveva come questione strategica lo status delle comunitĂ russofone nel Donbass, gli aveva fatto ottenere giĂ un notevole risultato, essendo riuscito a mettere quasi spalle al muro l’Occidente su quello che sembrava essere il suo obiettivo immediato, vale a dire raggiungere un assetto di sicurezza nell’Europa orientale piĂą consono per la percezione della sicurezza russa e per le sue mire espansioniste, non certo nascoste ma addirittura proclamate. C’erano giĂ chiari segnali che non gli sarebbe bastato ma quei segnali, pur essendo stati colti, sono stati quantomeno minimizzati con il risultato che abbiamo sotto gli occhi. Quello cui stiamo assistendo lascia sgomenti, obbligandoci a confrontarci con l’inimmaginabile: una grande potenza nucleare che invade il proprio vicino; giĂ centinaia di morti, una giĂ grave crisi umanitaria e il rischio di una pericolosissima escalation, militare ormai non politica, di natura regionale o addirittura globale. Tutto questo ci obbliga – prima di qualsiasi riflessione sugli inevitabili chiaroscuri di ogni grande crisi internazionale e delle sue cause profonde – a sgomberare il campo da ogni possibile equivoco: in questo momento vi è un aggressore e un aggredito, punto. Il distacco sarĂ pure indispensabile all’osservatore e un domani allo storico, ma la presa di posizione inequivoca è un dovere per il cittadino, italiano ed europeo in primo luogo. Rabbrividisco quando sento dire, anche da fonti autorevoli e perfino dai vertici politici internazionali, che questa sarebbe la prima grande sfida alla pace in Europa dalla fine della Seconda Guerra. I dieci anni di guerre balcaniche, la violenta disintegrazione della Jugoslavia, l’intervento armato della NATO (pur tardivo e limitato, in Bosnia nel ’96 e, molto piĂą pesante, in Kosovo nel ’99), lo strazio di Vukovar, Mostar e Sarajevo, i 200mila morti e i 2 milioni di profughi dalla Bosnia-Erzegovina, dalla Croazia, dal Kosovo e dalla Serbia stessa, avvenivano su Marte o nel cuore dell’Europa? Per chi come me quelle vicende le ha vissute intensamente, sul campo, a contatto diretto con chi moriva e soffriva per cinici calcoli di potere, spesso addirittura personale, è doloroso constatare che le lezioni che da lì provenivano sono state del tutte ignorate, anzi si tende addirittura a rimuovere quegli eventi dalla stessa storia.
- Alla luce di questi drammatici avvenimenti ai quali il mondo sta assistendo, secondo lei ci sono ancora margini per una via d’uscita diplomatica che possa, prima di tutto, salvare vite umane?
La diplomazia non deve fermarsi mai, ovviamente, ma a questo punto i margini per una “via d’uscita diplomatica”, per usare la sua espressione, sono a mio avviso limitatissimi se non del tutto inesistenti prima che vi sia un decisivo assestamento sul terreno. La decisione di Putin, del tutto irrazionale e inconcepibile, di aggredire l’Ucraina stessa, non limitandosi al sostegno ai secessionisti russofoni del Donbass, ha fatto saltare il tavolo, come si usa dire nel gergo diplomatico e non solo: è verosimile quanto ipotizzato dal “Financial Times” pochi giorni fa secondo cui al posto di un Vladimir Putin spregiudicato ma razionale giocatore sul tavole negoziale si sia ormai sostituito un “Vlad the Mad”, un “Vlad il Folle”, alienato dalla realtà dopo 23 anni di potere assoluto, in preda a una vera e propria paranoia di un complotto esterno e interno che gli tolga il potere, convinto di avere la missione storica di ricostruire l’impero russo. La verità è che la diplomazia ha un difetto evidente, e glielo dico sapendo bene di cosa parlo: non è in grado di abbandonare un terreno negoziale logico e razionale. E ormai siamo abbondantemente al di là del logico e del razionale. A questo punto, fermare Putin è un imperativo per l’Occidente che non può essere più ottenuto con le tattiche negoziali o, peggio ancora, con i vuoti proclami di principio. Sarebbe folle, ovviamente, immaginare una guerra vera e propria della NATO contro la Russia perché significherebbe una guerra nucleare, come minacciato apertamente dallo stesso Putin: vanno tuttavia attivate tutte le forme concrete, effettive e rapide di sostegno militare alla resistenza ucraina. Quanto alle sanzioni, anche qui bisogna uscire una volta per tutte dall’ipocrisia e dai cinici calcoli di interesse: le sanzioni economiche finora prese, da Washington e anche da Bruxelles, sono simboliche e inefficaci. Le uniche sanzioni economiche e finanziarie efficaci non sono quelle graduali ma quelle totali, che più si avvicinano non dico alla chiusura netta ma quantomeno al congelamento dei rapporti economici e commerciali con Mosca. In questo senso, i minuetti ai quali abbiamo assistito negli ultimi giorni e soprattutto lo spettacolo del Consiglio Europeo che non riesce neanche a decidere l’esclusione delle banche russe dal codice di pagamenti SWIFT sono stati francamente penosi. Se vogliamo difendere i principi e i valori di libertà e democrazia ai quali ci richiamiamo ogni giorno, i proclami e le dichiarazioni non bastano, bisogna essere disposti a pagarne anche un prezzo, pur alto e doloroso che sia, e questo deve essere ben compreso dalle opinioni pubbliche in primo luogo e fatto proprio dalle classi politiche e dirigenti che le rappresentano.